«Des mots tordus». Note su alcune scritture minori del disastro

Roberto Beneduce

Abstract


Le domande sull’esperienza e lo statuto della “visione” fanno da sfondo all’analisi di tre diversi casi: la vicenda di Vincenzo da Crosia (un paesino della Calabria ionica), le cui visioni sono state al centro di un aspro dibattito negli anni Ottanta; l’esperienza di Tony Laggetta, che con altri veggenti anima da anni un gruppo di preghiera in un piccolo centro del Salento; la storia di Donato Manduzio, in un paesino del Gargano, riportata alla luce da Elena Cassin e, più recentemente, John Davis, la cui conversione all’ebraismo negli anni del fascismo pone non pochi interrogativi a ciò che significa “conversione”. Se in tutti e tre i casi, letti a partire dalle categorie demartiniane, sono evidenti gli intrecci fra sofferenza individuale, immaginario religioso e contesto politico-sociale, le mie considerazioni si rivolgono soprattutto a considerare qualcuno dei nodi che il “vedere” intreccia con il “credere” (de Certeau), e quello che è un nucleo costante del vocabolario visuale: la capacità di alterare i vincoli del presente e pensare (o articolare) diversamente il mondo (destorificazione, contro-memoria, “insurrezione terapeutica”: de Martino, Lipsitz, Feierman, West, ecc.). È questa materia, comune all’esperienza della visione e della profezia a essere qui esplorata, con l’obiettivo di cogliere in queste esperienze la forma più elementare di contestazione, dove la presenza ostinata di linguaggi minori, simboli, pratiche, memorie sembra –  pur in forme solitamente frammentarie e “contorte” – opporsi all’ordine egemonico (Nandy).


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